martedì 15 maggio 2018

Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria




Ogni tanto capita di incappare in libri veramente strani. Magari per il contenuto o anche per la storia editoriale. A volte sono romanzi magnifici (come Il Segreto, di Anonimo triestino, per esempio). In altri casi, come in questo, sono libri inquietanti, misteriosamente profetici e con un’atmosfera dentro da “libro maledetto”. L’autore è un intellettuale torinese con una vita (e anche una psiche) parecchio complicata e finita parecchio male. A suo modo, lui stesso “un maledetto”.

Giorgio De Maria
E’ uno di quei libri che seguono percorsi carsici: appaiono in circostanze strane, spariscono e poi ogni tanto ricompaiono. Ignorato per anni in Italia, adesso è stato ristampato e persino tradotto e pubblicato negli USA con recensioni autorevolissime ed entusiastiche. Di recente è riapparso durante un dibattito del Salone del libro di Torino. 

Un centinaio di paginette (molto ben) scritte nella seconda metà degli anni settanta per raccontare fatti immaginati risalenti a dieci anni prima. 
Una Torino spettrale e misteriosissima (ma anche “slabbrata e segretamente febbricitante magica e satanica”), dove si sente costantemente (chissapperchè) puzza di aceto; un’epidemia di insonnia, morti surrealmente violente per mano di ignoti assassini che usano corpi umani come clave (come a dire: vite usate per distruggere vite); e poi, immondizia che si alza in cumuli nella tromba delle scale e, in un’ala del Cottolengo, statue che forse si cambiano posto nelle piazze e al centro la “Biblioteca”. Una percezione costante di un  Male oscuro, impossibile da decifrare, che però entra dappertutto. La conclusione è kafkiana, ma insieme con Torino è la “Biblioteca” la cosa più importante. Di sicuro la più sorprendente (specie per gli americani). Ha che fare poco con l’idea che la parola suscita. Ha molto a che fare invece  con i moderni social network, con facebook. Che descrive profeticamente in natura ed effetti quindici anni prima che di internet si cominciasse solo a parlare.


La “Biblioteca” viene istituita da ragazzoni sanicci, ben vestiti e ben tosati, vagamente fascistoidi, che sembrano Zuckemberg (incredibile) in contrapposizione con la lettura, con la narrativa, con i libri. Ecco cosa dice uno di loro:
“A noi non interessano la carta stampata, i libri, c’è troppa finzione nella letteratura, anche in quella cosiddetta spontanea... noi siamo alla ricerca di documenti veri, autentici, che rispecchino l’animo reale della gente, che possano, insomma, considerarsi per davvero dei soggetti popolari... possibile che tu non abbia mai scritto un diario, un’autobiografia, una confessione di qualche problema che ti turba?» «Sì, qualcosa avrei scritto, adesso che ci penso.» «Ebbene, perché non ce lo porti? Troverai certo qualcuno che ti leggerà e che si interesserà ai tuoi problemi... noi faremo in modo di metterlo in comunione con te e diverrete amici, vi sentirete più liberi. È una cosa importante quella che facciamo, visto che oggi è diventato così difficile comunicare……La prospettiva d’«esser letti» fluttuava lontana, come un fascinoso miraggio. Miraggio «reale» tuttavia, come «reali» erano le cose che venivan scritte. Io darò me stesso a te, tu darai te stesso a me: su questa umanissima base sarebbe avvenuto il futuro scambio”.


L'edizione americana
E così si comincia a raccogliere tutto quello che viene scritto in privato per essere condiviso e scambiato pubblicamente: un pensiero, una paginetta, un opuscolo, un diario. La gente si mette in fila o va in giro a depositare e raccattare notizie e pensieri; i propri e quelli altrui. Si passa il tempo (non potendo dormire) succhiando di nascosto la vita e i pensieri degli altri. L’immagine di un lago che si prosciuga si affaccia negli incubi che ricorrono in tutto il libro. Nel fondo del lago prosciugato si vedono solo bassorilievi. Anche qui, una sorta di virtualizzazione ante-litteram delle persone (oggi li chiamiamo “profili” e tutti veniamo profilati).
Inopinatamente, al là delle intenzioni dei promotori, questo meccanismo fa venir fuori e moltiplica tutte le malvagità, tutti i demoni; esibisce e mette in circolo tutte le povertà umane; stimola e amplifica con l’esibizionismo tutte le rabbie, le disperazioni, i bisogni di riconoscimento. Le solitudini, anziché lenirle le accentua, le esaspera, le fa esplodere in un rancore esplicitato.
Non è un caso se la violenza che si scatena nelle strade e tra i monumenti di Torino e che dura venti giorni, si accompagni con la Biblioteca e finisca con lei. Poi tutto viene rimosso e dimenticato. Finché qualcuno non comincia ad indagare. Dieci anni dopo.

Sarà che il libro in effetti rende benissimo il clima cupo, da “passioni tristi” (anche quello attualissimo). Sarà che ad inquietare non è solo l’intuizione, ma (ancor più) l’analisi di genesi ed effetti del fenomeno “social” senza ancora immaginare la scoperta della dimensione virtuale, senza il web. Fatto sta che a leggere questo romanzo davvero si prova una forma di paura, a tratti raggelante, come potrebbe accadere davanti all’apparire di un fantasma mostruoso, di qualcosa di inspiegabile, di un miracolo satanico.