lunedì 21 agosto 2017

Nella perfida terra di Dio di Omar di Monopoli



Per giudicare con onestà  questo romanzo bisogna liberarsi  delle aspettative esagerate di cui l’autore è e si è circondato. Gli echi sudisti faulkneriani (evidenti), quelli western alla McCarthy e anche quelli pulp sono echi appunto;  che risuonano nello stile e soprattutto nell’ambientazione (colore, polvere, incendi, sangue e altro ancora). Sono usati bene e con un buon effetto, ma echi sono e non altro. Spessore e visione di personaggi e fatti niente hanno a che vedere. Mille miglia lontani siamo.

Anche sullo stile, oltre gli echi non andrei. Lo scarabookkiante ha pensato più al  barocco leccese e  della Magna Grecia che alle radici bibliche e allo sperimentalismo dei giganti della letteratura sudista americana. Più Lagioia che americani insomma. Ed è roba buona anche quella: se la letteratura di genere italiana crescesse tutta fino a questi livelli di coraggiosa ambizione e anche di resa sarebbe un’ottima cosa.

Detto questo, è una bella storia, raccontata in modo intelligentemente movimentato, con una buona  geometria della trama e dell’architettura del racconto.  E con il merito di descrivere un pezzo di malavita organizzata italiana, quella pugliese appunto, che viene a torto sottovalutata e trascurata, salvo poi ritrovarsi il Far West sul Gargano, come in questi giorni. Ecco, per capire con la pancia oltre che con la testa quella roba lì, questo romanzo è un’ottima lettura.
Per apprezzarlo bisogna entrare in sintonia con  la vena immaginifica, sfrenata e spericolata nella produzione di metafore e nell’aggettivazione. A chi non piace potrebbe mettere il nervoso, ma può anche risultare stimolante. A tratti porta ad esiti di pregio vero.

Quel che è sicuro è che non ci si annoia e ci si diverte anche. Con quel che mette in vetrina quest’anno nei vari premi estivi la letteratura italiana, mi pare già abbastanza.