giovedì 27 aprile 2023

Guerra e pace di Lev Tolstoj

 






Va bene che i classici li chiamiamo così perché hanno la capacità di andare oltre il loro tempo, il tempo in cui sono stati scritti e in cui sono ambientate le loro storie.  Sanno cioè continuare a parlare delle cose umane  anche alla modernità più lontana nel futuro.

Va bene che più si attraversano gli anni e i libri, più si  scopre la bellezza delle riletture. Perché le riletture sono affrancate dalla febbre della trama, dagli imbarazzi del primo incontro con i personaggi, dalla più o meno piacevole fatica di scoprire stilemi e meccanismi narrativi. La leggerezza fa guadagnare alla rilettura lo sguardo alto e la profondità della penetrazione nel testo. Fa venir fuori il puro piacere che viene dalla bellezza della lettura.

Per fare un esempio,  è purissima bellezza letteraria la potenza drammatica dell’annuncio della morte di Petja prima a Natascia, mentre sta tentando di elaborare il senso e il lutto della morte di Andrej e poi alla madre. È paragonabile per forza emozionale forse alla scena di Cecilia e della madre nei Promessi sposi. Ambedue di una resa romanzesca quasi insostenibile. La potenza drammatica alla prima lettura abbaglia. Alla seconda avvolge.

Va bene tutto questo, però rileggere Guerra e pace e pensare per tutto il tempo che Tolstoj era uno di noi, un uomo del novecento, è tutta un’altra cosa. Alla rilettura balza fuori evidente. Tolstoj è morto nel 1910, ma i suoi romanzi maggiori sono stati scritti nella seconda metà dell’800 e di quel secolo portano ovviamente l’impronta. Eppure  lo si può davvero leggere come un autore del nostro tempo, ben al di là del contesto storico ed al di là del fatto, nel caso di Guerra e pace,  che di un romanzo storico si tratta. Ma le piccole storie, persino quelle autobiografiche, come la grande Storia, se filtrate nel laboratorio del romanzo da un grande narratore, travalicano i limiti della vicenda e parlato a tutti e di tutti, al di delle epoche e degli individui.

Va anche detto che la nuova traduzione di Emanuela Guercetti accende un’altra luce sulla lettura.

Il primo tratto  di modernità sta nella riproposizione, in pieno positivismo, della centralità del Mistero e della consapevolezza della povertà degli strumenti umani davanti ad esso. Bisognerà aspettare l’emergere degli enigmi della meccanica quantistica e della relatività, perché questa percezione torni ad essere dominante, comune. E il  Mistero in Tolstoj è quello novecentesco: il mistero dell’essere, dell’esistere tra due nulla; è anche  il mistero  del fenomeno lancinante della coscienza umana dell’esistere e del morire; infine é il mistero della imperscrutabilità che diventa ora anche irrintracciabilità del divino. C'è la ricerca disperata di un dio ordinatore della mente e della Storia che sembra sparito.

Il secondo sta nel sé narcisista ed ipertrofico, anche quello potentemente novecentesco,  di Tolstoj. E che è il suo motore creativo, la forza che lo faceva sedere a scrivere. Un bisogno di riconoscersi e compenetrarsi nel Tutto, che si scontrava con quella percezione del dubbio e col rifiuto di accettare la propria morte e la “morte di dio” di cui si diceva. I suoi personaggi, Andrej e Pierre su tutti, cercano disperatamente una via di salvezza dal nulla.  Vogliono continuare a comprendere e tener il mondo dentro un logica, dentro un senso, che per quanto inafferrabile, lo trascenda e lo/li affranchi dalla dissoluzione, prima morale e poi fisica. Ma la  vera rappresentazione di  Dio in Tolstoj è il suo sé, che vuol fondersi col reale, cerca una onnipotenza perduta di cui conserva la memoria e la nostalgia.

Il terzo è nella visione religiosa a cui, con questa ricerca disperata del divino, approdano Tolstoj e i suoi personaggi. Una visione che sta al di sopra delle chiese e delle dottrine e che si fonda su bontà e accettazione, su comunione e passività. Una visione che Tolstoj proietta sulla Storia assumendo la strategia del ritiro del generale  Kutuzov, come paradigma non solo militare e politico, ma esistenziale. L’abbandono di Mosca e la ritirata verso est dei russi davanti all’ invasione napoleonica diventa non solo una dimostrazione di patriottismo attraverso la passività e la negazione dell’azione, ma di accettazione ribelle, di sconfitta trionfante, di non azione vincente. Citati, nel suo bellissimo volume su Tolstoj, l’ha definita una forma di taoismo cristiano e probabilmente ha ragione. La volontà di Dio di Tolstoj è molto diversa dalla resa alla Provvidenza di Manzoni: è un lasciar andare, un assecondare il corso delle cose, e insieme uno artificio strategico per vincere.

Infine sia in pace che in guerra, sia nelle dinamiche famigliari e sentimentali che in quelle politiche e militari,  l’adesione ad una religione e ad una identità di nazione, di famiglia, di ruolo mostra sempre il segno, la ferita profonda e dolorosa del dubbio di arbitrarietà, di inconsistenza, di vanità. C’è l’incombere del nulla novecentesco in Tolstoj. E tutte le regole, tutti i piani umani di mettere ordine, di imporre un senso alle cose appaiono, già al concepimento, ridicolmente confutabili e vani. Basta cambiare visuale e condizione sociale, psicologica, economica o basta un fatto traumatico (una malattia, una ferita, una perdita, un amore e quant’altro), basta un raffreddore nel caso di Napoleone  e tutto cambia senso e colore, tutto precipita in una sconfitta. Perchè non c’è più un criterio assoluto di discrimine, non c'è più chi traccia il confine certo e stabile tra bene e male.

Con la storia e gli storici, Tolstoj assume toni di invettiva, da pamphlet più che da romanzo storico. Gli aspetti più forse più interessanti della visione della Storia di Tolstoj sono due. Il primo è quella  per la quale è impossibile ricostruire quel che è accaduto senza partire da una qualche Verità rivelata, la sola che consentirebbe di individuare davvero la genesi dei fatti e di distinguere il Bene dal Male. Se viene meno quella, ogni ricostruzione è parziale, arbitraria, nel complesso falsa. Il secondo è la spersonalizzazione della dinamica dei processi storici collettivi. Come quelli della vita individuale, sono il prodotto di un complesso di forze, di fattori che sfuggono al dominio dell’individuo (e quindi anche dell’eroe, del capo, di una classe dirigente, come delle masse che stanno per irrompere nella grande Storia) e producono effetti indipendenti da qualsiasi umana volontà. Uno gnommero direbbe Gadda, che di questa percezione della complessità fece un cardine della sua visione del mondo. 

 La non azione di Tolstoj, il suo rigetto verso ogni pretesa di ricostruire i fatti dando loro un senso ed una spiegazione univoche e ancor più verso la velleità  di orientare e modificare i processi (da quelli naturali delle malattie, a quelli militari, a quelli politici e storici, a quelli dei sentimenti) ha una faccia ribelle, anarchica, insofferente, febbricitante, irritata, a volte violenta. Esemplari, oltre che bellissime, sono le pagine che raccontano la reazione di Rastopcin, il comandante in capo di Mosca, davanti alla fuga di massa dei moscoviti. In  frangenti come quello l’uomo di Tolstoj alle prime reagisce, cerca di scovare di chi è e dove sta la colpa, divide il mondo in vittime e carnefici, individua capri espiatori, cerca e vuole i nemici, li uccide. È il canovaccio psicologico prima che storico del  secolo che verrà. Un  modo per negare e nascondere la frustrazione di chi vorrebbe essere onnipotente e si scopre invece impotente. Impotente davanti alla morte, al nulla, alla complessità, alla incomprensibilità e ingovernabilità delle cose, di quel Tutto che invece ambirebbe appunto a dominare fino a fondersi con esso.

Poi,  quando i suoi personaggi sono soli davanti alla morte e all’irreparabile (le pagine della morte di Andrej o della prigionia di Pierre sono magnifiche ed esemplari), questo bisogno di salvezza finalmente trova la strada di una evazione mistica, in una accettazione, in una passività che regala almeno l’illusione di una pace. E anche questo parla al nostro tempo.




venerdì 31 marzo 2023

I romanzi di Laszlo Krasznahorkai







Qual è il romanzo migliore di  Krasznahorkai? 

Leggerne uno qualsiasi e porsi questa domanda significa arrivare sempre alla stessa risposta.

E’ senza dubbio il più grande scrittore vivente che si può incontrare. Lo è per la potenza visionaria nel costruire le storie, per il livello di profondità della riflessione filosofica da cui cui i suoi libri risalgono, per la complessità e la bellezza della sua prosa.

Le letterature dell’est stanno producendo in questi ultimi anni le cose migliori che si trovano in giro. Penso anche a Cartarescu e a Gospodinov soprattutto. E per una ragione precisa che li accomuna. Perché riescono ad elevare l’ultimo grande tracollo della storia contemporanea, quello dei regimi del comunismo reale, a paradigma del tracollo nichilista della metafisica dell’uomo contemporaneo e della percezione ormai comune del (non)senso che ha il vivere nell’universo e nel nostro piccolo mondo così come possiamo percepirli ed interpretarli oggi. Sembra che il crollo dell'ultima utopia apra la strada al trionfo del nulla. E Krasznahorkai anche nel racconto di questa percezione è il più grande. 

Pochi scrittori hanno un livello di qualità così alto e così omogeneo nei romanzi che hanno pubblicato nel corso degli anni. E’ per queste ragioni che ogni volta che si finisce di leggerne uno dei suoi libri, sembra è il migliore. 

Poi si va  a riguardare li precedenti e ci si accorge che ogni classifica è arbitraria. Quindi la risposta alla domanda è semplicemente che sono tutti bellissimi. 

giovedì 30 marzo 2023

Diario di un'estate marziana di Tommaso Pincio


In quest’anniversario dei 50 anni dalla morte di Ennio Flaiano, di tutti i libri e di tutte le commemorazioni in tv o in teatri, librerie e biblioteche in cui sono più meno piacevolmente incappato, questo diario di Pincio è la cosa migliore. 


Ha disegnato l’immagine forse più vera, ha reso la sostanza letteraria e umana più autentica di Flaiano. O almeno di quella che anch’io, da suo lettore fedele, mi porto dentro ormai da decenni. Una sostanza fatta da alcuni ingredienti fondamentali, che Pincio, scrivendo un diario che potrebbe essere anche letto come un auto-analisi o un romanzo-memoir o un saggio, ha individuato molto bene. La profonda malinconia che li accomuna innanzitutto; il “broncio infantile” a nascondere e insieme ad amplificare l’effetto delle fiammate di intelligenza, di ironia, di acume che si trovano nei scritti di Flaiano e che tutti dicono si alzavano nella sua conversazione. La malinconia e il broncio come atmosfera mentale di fondo, che nascevano (e nascono sempre) dalla infanzia negata; quella che ti lascia l’alone indelebile della percezione di essere inadeguato e dunque immeritevole di attenzione, rispetto, affetto e quindi destinato ad essere respinto.


Poi Pincio individua e spiega la centralità nella visione di Flaiano del mondo di due idee-chiave: l’idea dì inutilità, di vanità delle cose e l’idea dell’errore e dell’equivoco come criterio base della interpretazione delle scelte e dei fatti. Infine c’è la pratica della mortificazione. Quella subita (dell’infanzia, in una famiglia che lo aveva allontanato e della giovinezza, negli anni tristi del fascismo e della guerra coloniale) e quella agìta. La mortificazione cioè che usava per spegnere gli effetti che gli producevano i riconoscimenti, i segni del successo che gli venivano tributati troppo tardi e per motivi e moventi a cui non credeva e che non prendeva sul serio. La stessa mortificazione che usava anche per arrivare alla rassegnazione davanti al dolore degli insuccessi e degli insulti del destino e che gli disegnava sul viso una sorta di “sorriso dell’impiccato” (come si dicesse a se stesso “vedi? Che ti avevo detto?”). 


Viene fuori nel libro anche il rapporto con Fellini, che ha riempito il suoi film dei fantasmi di Flaiano senza mai riconoscergliene la paternità e il rapporto di “odiamore” con Roma. Due tradimenti paralleli e mai davvero perdonati. Lettura utile, ma anche assai piacevole, soprattutto per la “voce” che Pincio trova: soffusa, malinconica (molto da serata estiva romana), che dà un’idea di autenticità e di calore.

mercoledì 29 marzo 2023

La ricreazione è finita di Dario Ferrari



Non mi è per niente “un grande romanzo italiano”, come dice qualcuno. Finché sta sul protagonista-narratore regge bene. È originale, ha una sua freschezza di stile, rende bene personaggi, ambienti, epoca. Ed è giusta anche la voce quando racconta di Viareggio, della fidanzatina, del mondo accademico e delle sue figure (un po’ troppo macchiettistiche, ma funzionano), anche di un certo neo-vitellonismo anni ’70-80. 

Quando passa a parlare dello scrittore-terrorista e dei suoi compagni (la biografia di Tito Sella, in particolare, ricostruita non si capisce bene come) diventa approssimativo, poco credibile e molto opinabile come rappresentazione degli anni di piombo. Nemmeno come versione parodistica dà l’idea di cosa è stato. Soprattutto diventa noioso. Il personaggio manca di messa a fuoco, resta immerso in una nebbia. E tutta la sua vicenda non sta proprio in piedi. Il parallelismo con il protagonista narratore poi, che dovrebbe giustificare l’esistenza stessa del romanzo oltre che la sua struttura, mi pare cosa confus’assai. Di buono resta solo la voce narrante .

Insomma è un romanzo disomogeneo e largamente imperfetto, con una trama cucita male ed un finale ad effetto, appunto, che scivola nel noir come avrebbe potuto scivolare nella fantascienza o nel romanzo rosa. Tutto piuttosto arbitrario e approssimato. Insomma una cosa non da buttare, per la scrittura soprattutto, ma in linea con la mediocrità italiana del momento. Niente di più.

martedì 28 marzo 2023

Lezioni di Ian McEwan

 



Un bel romanzo, di quelli veri: largo, lungo e pieno di Storia e di storie. Poi, McEwan ha una delle voci narranti più belle ancora in circolazione. La usa (anche qui) per soggetti e trame molto strutturate e spesso disturbanti (ma questo lo è meno del solito). Ha scritto alcuni romanzi indimenticabili e alcuni molto meno. Però che la sua prosa, il suo stile, la sua tonalità di racconto avvolgano il lettore e siano un insieme inconfondibile, questo è sicuro. E anche in questo libro è così.

Nei suoi romanzi c’è sempre una profusione dei dettagli di ambiente, dei retropensieri, delle piccole e grandi vicende che sottostanno a oggetti e atteggiamenti. In “Lezioni” più che in altri questa cosa funziona come un’arma a doppio taglio. Da una parte tenderebbe ad annoiare il lettore che vuole ritmo (McEwan, anche per questo, non piace a tutti). Dall’altra compensa l'andamento lento della trama, che peraltro per lunghi tratti, esasperando il ricorso al flashback, è più una trama all'indietro che in avanti. E così, il sapere e con gli aggettivi giusti e la giusta tonalità di narrazione, in un ricevimento per esempio, cosa si mangia, di che si parla, che musica c’è in sottofondo, che fanno i bambini, che tempo fa fuori e com’è la temperatura dentro, quali sono i rimandi nel passato delle cose anche minime che succedono, ti fa abitare quel salotto e quindi il romanzo, aspettando di capire dove si va a parare. Non bisogna avere fretta, nel leggerlo.

Anche perché merita la pazienza che impone. E' un romanzo importante nell'opera di McEwan. Insieme con il suo personaggio sembra fare una resa dei conti, un riepilogo di senso della sua storia e insieme della grande Storia degli ultimo secolo. E ha come primo merito quello che ci si affeziona e si partecipa al destino di questo personaggio. Alla fine diventa un caro amico e non si può non pensare che il libro sia una sorta di testamento dolceamaro dell'autore. Leggendo, ho anche pensato a Stoner (salendo di livello) e (scendendo invece; e parecchio) al Colibrì di Veronesi. Qualità a parte, rispetto a tutti e due, è senz'altro maggiore la quantità e la complessità dei temi che tira fuori. Complessivamente credo sia uno dei compendi, dei ritratti più efficaci dell'epoca che ci è toccato di attraversare. A voler entrarci dentro, al merito dico, il commento occuperebbe lo spazio di un trattato. Quindi, anche per questo, si può solo consigliare di leggerlo.

lunedì 27 marzo 2023

La malnata di Beatrice Salvioni

 


Opera prima interessante, direi esemplare, soprattutto come caso editoriale di prodotto progettato a tavolino e come esempio di predestinazione concepita in vitro (ad un grande battage pubblicitario, al mercato internazionale, alla riduzione televisiva). Dietro ci sono un certo livello di talento e di applicazione, una grande scuola di scrittura (grande in tutti i sensi), una grande agenzia letteraria e un grande editore (idem come sopra). Evidente il gran lavorio che ci sta dietro (basta leggere i ringraziamenti). Evidente (decisamente troppo) nel soggetto prescelto il modello dell’”amica geniale”.

Ne è venuta fuori ovviamente una cosa tipo la Coca Cola, tipo il panino McDonald, tipo la Nutella, tipo la pizza. Pochi possono onestamente dire che fa schifo. Molti pensano che sia buonissima. In ogni caso, si fa consumare rapidamente e senza problemi, ha un suo gusto labile e accattivante e risolve a costi contenuti il problema. Poi lascia un po’ la voglia della prossima e comunque è di quel genere di proposta che rappresenta sempre una soluzione in mancanza di meglio o di volontà di mettersi in cerca. 

Quindi, è un romanzo che si legge in un pomeriggio, è ben costruito nella scrittura (la voce narrante è molto ben impostata), nel ritmo, nel disegno dei personaggi e nell’ambientazione storica (in letteratura, a nord, il “ventennio” e seguito funzionano quasi sempre; come la mafia al sud). Una storia che “prende” e che ha i suoi tratti di riconoscibilità: l’accento sulla tematica di genere, un certo taglio di impegno civile e politico, un’atmosfera e una serie di messaggi da favola nera per bravi adolescenti tatuati del tempo di Tik Tok. Che è il target di riferimento. Non c’è l’ecologismo, ma non si poteva metter tutto. La cosa che proprio non regge è il finale. Immangiabile, da vecchio film western: per rendere l’idea senza spoilerare, basta immaginare la scena standard sotto l’albero in un canyon con la corda già pronta per l’impiccagione. L’effetto è come se nel BigMac, al posto della maionese ci avessero messo la marmellata. Per la fretta, temo, perché più che un finale è una troncatura.

Per il resto un buon prodotto per il consumo globale. 

Ps) Tre stelle (una, di incoraggiamento) perché se in Italia imparassimo con i romanzi a fare anche la Coca Cola al posto dei tanti Tavernello in circolazione, secondo me sarebbe una buona cosa.

lunedì 19 settembre 2022

Le perfezioni di Vincenzo Latronico


Vita di due giovani web-creativi innamorati (stranamente, un ragazzo e una ragazza), a Berlino (e qui si torna alla normalità: se non a Berlino, dove?). In omaggio a Le cose di Perec, descrizione iper-analitica di casa (con perfezioni e imperfezioni), sesso (come con la casa), città (idem come sopra), lavoro (molto e solo smart), cucina (immancabile la passione per “l’impiattamento” e preliminari), pensieri (“un paesaggio interiore dissestato da vent’anni di internet”: diciamo confusi, ecco). Un capitoletto di impegno compassionevole (l’impegno politico, si sa, è diventato impossibile, anche a Berlino). Un paio di puntatine veloci a Lisbona e in Sicilia (finiscono per annoiarsi anche là). Piccolo colpo di scena finale. 
La cosa che mi ha colpito di più? Mai che leggessero un libro, neanche in formato elettronico piratato, neanche americano sul managerialismo (che per me è il ground zero della lettura).

Non ho capito bene se il romanzo è così ben scritto e centra così bene il problema (il loro, reale e interessante, ma sarebbe lungo parlarne seriamente) da portare il lettore (che sarei io) ad oscillare tra depressione e irritazione perché loro sono deprimenti e irritanti.  Oppure se è proprio il romanzo che fa questo effetto a pendolo. Il dubbio resta, ma comunque l’effetto quello è. Fortuna che è brevissimo.
E non aiuta a dissiparlo (il dubbio, dico), il tono narrativo (peraltro, gradevole) che sembra prendere tutto talmente sul serio (piante, pub, leccate, videate, tiramenti mentali) che non capisci se è empatico o raffinatamente ironico (insomma, li commisera, li descrive con distacco o sottosotto li percula?). 

Confesso che certe frasi mi sono rimaste sospese in testa come UFO (oggetti non identificati), però un loro effetto lo fanno (come gli UFO, appunto). Tanto per riportarne una: “La città saliva e scendeva come una marea”: “c’avrá voluto dì?” (come diceva la Simona Marchini a Black Out). Che poi è la considerazione che potrei estendere a tutto il romanzo. 

La tirannide dell'Io di Enzo Traverso

 


Ci sono due linee di tendenza molto forti nella produzione letteraria più recente. La prima è l’autobiografismo e la seconda è la no-fiction. E all’interno di quest’ultima c’è la tendenza a utilizzare la Storia come serbatoio di storie e personaggi da romanzare. I libri di Carrere, di Scurati, di Vuillard, di Littell, della Auci sono solo degli esempi,  tra i più noti e di livelli di qualità assai diversi. In questo alveo peraltro c’è anche il proliferare di docufiction e docudrama in campo televisivo, cinematografico e dei podcast.


Tendenze, che esistono da quando è stato inventato il romanzo, intendiamoci (basti pensare a Tolstoj, a Stendhal, a Mann, a Manzoni, a Grossmann, ai romanzieri del “finis Austriae”, a Sebald), ma da qualche anno sono particolarmente marcate a scapito dei romanzi di pura invenzione, della fiction e basta.

Poi c’è, in campo storiografico, l’emergere di una tendenza  parallela: quella di scrivere saggi storici, di raccontare la storia, in prima persona. Tendono cioè ad uscire da quella terza persona che  per secoli ha garantito distanza, oggettività, corrispondenza alla verità delle fonti, sterilizzazione del testo rispetto alla mano di chi lo ha scritto, per inserire in quel che pure è e resta un saggio, aspetti emozionali, punti di vista, esperienze personali dell’autore.

Per dirla con le parole di Traverso

“La linea di separazione tra storia e romanzo risulta dunque offuscata da una nuova interazione che crea forme quasi simbiotiche: mentre i romanzieri si ispirano sempre più alla storia e si mostrano estremamente attenti alla verità dei fatti, gli storici cominciano a fare delle loro indagini una narrazione letteraria, ricorrendo a trame ed eroi che nella maggior parte dei casi altri non sono che gli autori stessi.”


Tra il soggettivismo degli storici, la narrativa storica e l’autobiografismo, che  sono cose molto diverse tra loro, c’é  più di un punto di contatto. Due, in particolare. Il primo è, per l’appunto, il venire in primo piano dell’Io dell’autore. Il secondo è il presentismo. Sulla narrazione storica o sul passato dell’autore, sulla Storia e sui suoi protagonisti, su biografie ed autobiografie  vengono  proiettate, spesso contemporaneamente, le ombre ingombranti dell’Io dell’autore e del presente in cui la narrazione viene scritta. Si guarda e si racconta la Storia e  la propria storia alla luce dell’oggi, di quel che come collettività e come persone si è diventato. La convinzione quasi generale  che il passato non può insegnare niente sul futuro genera un atteggiamento culturale per cui  l’uno e l’altro vengono inglobati in un presente eterno in cui tutto è accaduto e tutto può accadere. 

Sono tendenze di successo. Attraggono lettori. Attraggono lettori “profondi” che cercano vie di introspezione e visuali di mondo. E attraggono anche e forse soprattutto lettori “leggeri”, che chiedono ai libri anche o solo intrattenimento, effetti emotivi, qualcosa che somigli ai piaceri della  serialità televisiva o del cinema. Tutti e due cercano personaggi e situazioni in cui riconoscere il proprio modo di essere, la proprio quotidianità, il proprio tempo storico così come lo percepiscono. Questi meccanismi di identificazione come valgono al di là della qualità dei lettori, valgono anche al di là della  qualità letteraria dei libri, che a volte è più che buona e a volte invece scadente.


L’interpretazione che del fenomeno dà Traverso è argomentata e convincente. Si potrebbe riassumerla in due righe sue: “l’orizzonte della nostra epoca è quello della società di mercato, un mondo frammentato e atomizzato. Le sue identità sono individuali, non più collettive”. Dopodiché il discorso ovviamente è più complesso.


Proviamo a schematizzare:


1 L’individualismo come portato fondamentale del neoliberismo ormai dominante produce soggettivazione in tutti gli ambiti, a scapito delle visuali comunitarie e collettive. Tutto diventa un selfie.


2 La storia è finita e dunque il futuro non c’è più. Sommato al fatto che il passato non può più insegnarci niente, tutto si svolge nel presente. “Laurent Binet, che deride i giudizi estasiati secondo cui l’eroe delle Benevole «sembra vero perché è lo specchio dei suoi tempi». Niente affatto, ribatte: sembra vero «perché è lo specchio dei nostri tempi: nichilisti, post-moderni, per dirlo in due parole”


3 La svalutazione della dimensione politica, la spoliticizzazione generale del governo della società e delle vite, toglie a quel che del passato conserviamo nella memoria l’esigenza della trasmissibilità, della condivisione.   “L’espansione dell’“io” comporta per forza di cose un restringimento del “noi”.

La memoria si ritira nella dimensione individuale e si reifica in una serie di feticci (oggetti, cose, luoghi, foto ecc). Oggetti da museo. Musealizzazione della memoria e privatizzazione del passato mettono l’Io nella posizione centrale che poi ritroviamo nelle tendenze che si manifestano nella letteratura e nella ricerca storica. Prima, una certa interpretazione del   passato alimentava una visione comune del presente (e quindi una prassi politica) e produceva una precisa visione  e aspettativa del futuro. Oggi è il campo di gioco, la palestra di esercizio, il laboratorio privato di ricerca dell’Io.

“Un atteggiamento di questo tipo è possibile solo in un mondo – più precisamente, in ciò che viene definito il mondo occidentale – dove il passato non ha più un legame vivo e sentito con il presente, ma rappresenta piuttosto un paesaggio reificato e trasformato in un vasto assemblaggio di luoghi della memoria.”


4 Soggettivismo e presentismo sono forme di ritiro nell’ intimità. Il conosci te stesso diventa metti in un vetrino ed esponi in vetrina te stesso. La cultura californiana di matrice hippye, contaminata di orientalismo si ricicla in versione social. Alla base, minimo comun denominatore globale, il rifiuto della politica. 

Famiglia e culto degli antenati, nostalgia dell’infanzia sostituiscono, in parallelo e reciproco sostegno con i social, le forme di condivisione sociale.

“Se si accetta l’idea che la storia è “una letteratura contemporanea”, bisogna vederla come uno specchio della sua epoca, al pari di ogni creazione letteraria; nella fattispecie, uno specchio dell’inizio del XXI secolo, l’era del neoliberalismo, del ripiegamento verso la sfera individuale.”

“Una volta stigmatizzate le utopie del Novecento e preso atto della loro sconfitta, i rivoluzionari dello Yiddishland cessano di essere membri di un movimento collettivo per diventare vite singole e isolate, i nonni mai conosciuti. Le nuove scritture soggettiviste della storia sono nate anche da questa rottura storica.”


Come si intuisce, il saggio di Traverso, per quanto breve, individua e analizza bene il fenomeno. Va aggiunto che lo fa con un apparato bibliografico notevole, ricco anche di ottimi suggerimenti di lettura, sia sul versante letterario che su quello della saggistica. 

Sia lode ora a uomini di fama di James Agee e Walker Evans

 


Romanzo-reportage, anche fotografico, che è diventato un po' una leggenda. Una cosa è certa: un po' ti toglie la pelle. Vollmann nella introduzione a I poveri (un libro che tratta dello stesso argomento con tutt'altra tonalità) scrisse “leggere Sia lode ora a uomini di fama è come prendere uno schiaffo in faccia”. È così. Intanto, perché si capisce ad ogni pagina che la pelle l’ha tolta anche a chi lo scriveva, mentre lo scriveva. E poi, Agee in effetti non perde occasione per prendersi a schiaffi da solo. Per i complessi di colpa dice ancora giustamente Vollmann, ma non solo. Certo, il tema del senso di colpa dell'intellettuale famoso e impotente davanti alla tragedia degli ultimi è importante nel libro. Ma lo è anche Il tema metaletterario del rapporto tra giornalismo e letteratura, tra fedeltà della rappresentazione e creazione artistica, tra dovere della testimonianza e narcisismo.


La cosa migliore è la ricerca della bellezza dell'umano, anche sulle soglie estreme della povertà. Le descrizioni sono ossessivamente minuziose, ma sempre con quello sguardo all’orizzonte lungo delle vite e della condizione generale del vivere. Sempre come fosse davanti a qualcosa che ha del sacro e quindi anche del sublime. Fa pensare alla minuzia devota con cui Melville in Moby Dick parla come se scrivesse un manuale di balene per balenieri. Potrebbe annoiare, ma è in quella punta di noia che si nasconde la percezione del grandioso e non bisogna lasciarsela sfuggire. Lo scova nelle facce, nelle cose, nelle case, nei campi, nelle bestie, nei vestiti, nelle scarpe, nei paesaggio, nello straziante cimitero. Il che, sì, un po’ riscalda il cuore, ma fa anche aumentare la forza dell’effetto che nel lettore fa la tragedia di quel vivere, del vivere. 


Lo commuove. Lo fa pensare. Nonostante chi scrive lo faccia sempre col ciglio asciutto. Non vuole commuovere anche quando sarebbe umano volerlo e commuoversi. E non vuole nemmeno giustificare, coprire, nascondere la faccia brutta e oscura e degradata di quella umanità.


Poi c’è la cum-passione: la spinta dell’autore, che si percepisce in ogni parola, a condividere e a sottrarre alla solitudine; a riscattare, raccattando in mezzo alla mortificazione della miseria e dello sfruttamento quelle che potrebbero sembrare solo briciole di splendore, di coscienza e di umana nobiltà; e, forse, chissà, persino di speranza. Briciole che sono comunque, alla fine, quanto di più prezioso quegli esseri umani e tutti gli esseri umani, per il semplice fatto di esistere come tali, hanno. È anche questa sensazione di partecipare, questa condivisione a rendere la lettura del libro, alla fine, una semplice, complicata, terribile, accorata consolazione.

Due annotazioni finali. Il capitolo più esemplare e anche sconvolgente del libro è quello dedicato alla educazione dei bambini, descritta con tanto di argomentazione come pratica criminale di asservimento e come genocidio delle umane potenzialità. E al suo interno sono illuminanti le considerazioni sulla coscienza, sul suo valore salvifico. Ne mette bene in evidenza però anche il risvolto di disperata dannazione che può avere nella vita umana il dono e la sventura di imparare ad essere coscienti. 


Il senso più profondo e la parte più bella del libro sta nel capitolo titolato “Due punti”. Che è il suo manifesto, anche poetico, di intenti; ed è quindi una sorta di lirica sinossi del libro. Una quindicina di pagine da leggere assolutamente. E poi, lentamente, da rileggere.

Trust di Hernan Diaz

 



Romanzo in quatto parti, quattro voci, quattro versioni e quattro moduli narrativi completamente diversi, attorno alla stessa vicenda. Originale, sperimentale, se si vuole, ma non per puro esercizio formale. La struttura è funzionale alla storia e diventa sostanza a sua volta. Romanzo vero, dunque. 

Si, un libro sui soldi, ma i soldi in fondo sono un pretesto per disegnare due figure, un legame ed un’epoca. E a tratti lo fa con una capacità espressiva formidabile. Per dare un’idea, ecco come descrive il primo incontro tra i due:

“Un’ombra esitò, proprio accanto a lei, sulla soglia che conduceva a un salottino. Helen notò che il suo profilo nero sul pavimento esprimeva la stessa esitazione – il rammarico di essere stata sorpresa, la mancanza del coraggio di andarsene, la riluttanza a farsi avanti. Le sagome senza volto sembravano contemplarsi, come se desiderassero risolvere la situazione tra di loro, senza dover disturbare i rispettivi proprietari. Helen non fu sorpresa quando a emergere dal salottino fu Benjamin Rask.”

L’ultima parte, il diario, è splendida. Per il contenuto, per il modo in cui scioglie e disvela, ma soprattutto per il tono narrativo, per l’efficacia e per l’emozione che trasmette.